Introduzione
Certamente Dino Buzzati può
annoverarsi tra i più grandi autori italiani del Novecento.
Artista eclettico, oltre che
giornalista e scrittore era anche pittore, appassionato della montagna, è noto
al gran pubblico soprattutto con il suo “Deserto dei tartari”.
Tuttavia, la forma che meglio
corrisponde al suo talento narrativo è il racconto, e proprio con la fortunata
raccolta “Sessanta racconti” vincerà il premio Strega.
I racconti di Buzzati sono magistrali
nella forma e nel contenuto, ma anche particolari e di difficile catalogazione.
Sono racconti surreali, talvolta fantastici se non fantascientifici,
allegorici, e talora anche macabri o misteriosi.
Infatti per Buzzati, accanto a
tutto ciò che i nostri sensi sperimentano e utilizzano per costituire la
realtà, esiste una dimensione misteriosa e potente che ci sfugge.
Il sapore triste, disperato ed a
volte vagamente macabro delle sue opere, è forte in qualsiasi luogo esso le
ambienti, e ci invita a guardare ciò che ci circonda, con occhi più rispettosi
e consapevoli del mistero della vita. Con un senso di attesa di qualcosa, che non arriverà mai.
Buzzati scrive bene, con grande
limpidezza espressiva e linguistica contrapposta al mondo allegorico, surreale
spesso rappresentato; in lui domina sovente un senso del fantastico, nei libri
di Buzzati c' è il mistero e la magia che ritrovi nei silenzi dentro i boschi
di montagna da lui amatissimi. Ha un suo particolare stile, asciutto e
incantatore. In un certo senso, Buzzati trasfigura la realtà per farla vedere
meglio, per far scoprire a tutti che sotto sotto c'è una bellezza pura e
incontaminata. E i racconti terminano come fossero incompiuti, lasciando il
lettore aperto ad altri significati che può attribuire al testo appena letto.
Sette piani
“Sette piani” è uno dei racconti
più conosciuti ed anche più emblematici di Buzzati.
Esso, in un certo senso, è una
metafora della vita, descrive in maniera indiretta come l’uomo in effetti si
trova in balia dell’esistenza, nulla può contro gli eventi che si susseguono
nel tempo, è impotente, non è mai padrone del suo destino che dipende da altri
ed altro da lui non controllabile, per quanti sforzi faccia, e questo gli crea
ansia, angoscia, mal di vivere.
Un giorno Giuseppe Corte si fa
ricoverare in un moderno sanatorio, il migliore del suo genere, specializzato esclusivamente
nella cura di quell’unica malattia da cui è affetto, per cui medici e sanitari
sono assolutamente i migliori a disposizione. La casa di cura è strutturata in
sette piani: i pazienti meno gravi vengono ricoverati in quello più alto,
mentre ai piani più bassi si trovano, in forma crescente da piano a piano, i
casi più gravi. Corte viene accolto subito al settimo piano, in attesa che i
medici riescano a debellare la lieve forma che lo affligge e lo rispediscano a
casa al più presto, come egli spera. Ma dopo poco che soggiorna al settimo
piano, pieno di buonumore e voglia di guarire, commiserando gli inquilini dei
piani sottostanti il suo, una serie di sfortunati e sconcertanti eventi,
indipendenti dalla sua volontà, fa sì che venga gradualmente trasferito nei
piani inferiori, sempre con motivi pretestuosi, e quindi senza che ve ne sia la
reale necessità medica.
Prima il ricovero di una donna
che vorrebbe, al settimo piano, occupare più camere (per lei e i figli), e quindi la necessità di posti letto
supplementari che gli vengono richiesti appellandosi alla sua cortesia, poi gli
scrupoli di un medico allarmista, successivamente un semplice sfogo che gli
appare su una gamba e lo fa scendere addirittura di due piani, poi un errore
amministrativo, infine le ferie dei dipendenti: Giuseppe Corte discende così
uno dopo l'altro i vari piani della clinica, nonostante le continue proteste
nei confronti del personale dell'ospedale e nonostante i medici continuino a
ripetergli che non ha nulla di grave. Con una graduale escalation di angoscia e
depressione, Giuseppe Corte scende simbolicamente i vari gradini della
degradazione umana, diviene una marionetta, un povero malato privo di forza, in
balia del volere altrui a cui non sa o non è capace di opporsi, e giunge al
temutissimo piano terra, il regno assoluto della desolazione e della tristezza.
Corte, impotente nei confronti delle decisioni prese all'interno dell'ospedale,
in un ultimo anelito, tenta ancora di persuadere se stesso e i sanitari circa
la sua sanità.
Ma inesorabilmente cade in balia
del buio della depressione, che non permette risalite di sorta.
Eppure battono alla
porta
Un racconto surreale, melodrammatico,
che ricorda molto da vicino le atmosfere di attesa inquietanti alla Edgar Allan
Poe, come nella “La maschera della morte
rossa” o “Il crollo della casa degli Usher”, e che riporta il drammatico
contrasto tra la boria, l’arroganza e la superbia delle classi nobili, le
cosiddette persone per bene, e la potenza della natura.
In un palazzo aristocratico una
nobile famiglia si ritrova insieme ad alcuni invitati, mentre all’esterno imperversa
un tremendo temporale. Nessuno, tranne pochi dei presenti, si accorge o sembra
curarsi del fatto, dell’imminente, disastrosa alluvione alle porte.
In una notte di pioggia, Maria
Gron è nella sua casa, insieme alla sua famiglia e al dottor Martora, medico e
vecchio amico di famiglia.
La figlia Giorgina le racconta di
aver visto due contadini portar via due cani di pietra che erano sempre stati
nel parco della famiglia. Mentre i presenti discutono di ciò, arriva il giovane
Massigher, che la signora Gron non ha in simpatia, il quale cerca di avvisare
la famiglia di un pericolo legato all’ingrossamento del fiume, dovuto alla
pioggia torrenziale, ma la signora Gron non vuol sentir parlare del fiume e
continua a cambiar discorso.
Mentre la famiglia e gli ospiti
giocano a carte, si sentono dei rumori che sembrano provenire dalle fondamenta
della casa, ma Maria Gron li attribuisce al temporale. I contadini vengono
trafelati ad avvisare della violenza inaudita della natura. Il fattore Antonio
si presenta alla porta, preoccupato dall’avvicinarsi dell’acqua, ma la famiglia
ignora il suo avvertimento.
Infine l’acqua giunge fino alla
casa ed entra da una finestra aperta, ma Maria rifiuta di lasciare la casa con
tutti i suoi averi e tutti restano in attesa di quello che accadrà molto
ansiosi. All’improvviso qualcuno bussa alla porta…
L’ottusità di chi non concepisce,
come la signora Goru, che possa accadere qualcosa contro la sua volontà, fa sì
che la casa sia inghiottita dal fiume, insieme con tutti gli occupanti, senza
che nessuno muova un dito.
L’ ottusità dell’uomo, la sua
tracotanza, il senso di onnipotenza, sono tutti orpelli inutili dinanzi alla
semplice, disarmante azione delle acque, che svolge quasi un ruolo di necessaria,
profonda, radicale pulizia.
Il mantello
“Il mantello” è una breve, ma
ferma, insolita, determinata e commovente denuncia della guerra, dei lutti e
degli orrori di tutti gli eventi bellici.
Dopo tanto tempo il soldato
Giovanni torna a casa, di rientro dalla guerra. Egli è accolto con gioia
immensa dalla propria madre. Tuttavia la donna si accorge che il figlio non è
più il ragazzo pieno di forza e di vita, come lo ricordava, allegro e gioioso
com’era quando è partito. Naturalmente in cuor suo la donna lo giustifica,
crede che sia una conseguenza della triste esperienza che ha dovuto affrontare,
che lo ha trasformato di colpo da ragazzo ad uomo. Tuttavia ben presto si
accorge che c’è altro, che c’è di più: Giovanni è strano, pallido, frettoloso,
nervoso, passa da un ambiente all’altro quasi con furia, quasi volesse
permearsi dell’aria di casa, delle immagini familiari, assorbire suoni, odori,
immagini delle sue cose familiari, dal suo letto agli oggetti della sua
infanzia.
E inizia a salutare la mamma, ad
accomiatarsi da tutti, mostrando una gran fretta di ripartire immediatamente. Soprattutto
Giovanni appare assai turbato, quasi assillato, ossessionato dalla presenza di
un “amico” che lo ha accompagnato fino alla casa natia, ma che malgrado le
insistenze della madre, non fa accomodare in casa, l’amico di Giovanni lo
aspetta fuori dal cancello, lo aspetta a breve, lo aspetta con impazienza. La
madre non capisce perché deve ripartire immediatamente, chiede inutilmente
spiegazioni, crede che il figliolo desidera scappare a rivedere quanto prima la
sua fidanzata, ma ben presto capisce che lei stessa si sta illudendo. Il suo
cuore di madre capisce, va oltre l’umana sapienza e gradualmente, ma
inesorabilmente comprende chi è il misterioso amico da cui Giovanni deve assolutamente
ritornare al più presto, comprende perché il suo bel figliolo ha un’ aria
diversa, dismessa, eterea come un
fantasma…ma proprio perché madre si rifiuta di credervi. La scuote,
riportandola alla cruda realtà dell’esistenza l’azione di un innocente, il
piccolo fratellino Pietro, che scosta il lembo del mantello che Giovanni non si
era mai tolto durante l’ultimo commiato, rivelando un’atroce, mortale ferita. E
fuori lo aspetta inesorabilmente l’amico, l’amico che con pazienza, tenacia e
misericordia, ha permesso a Giovanni di essere rivisto l’ultima volta dai suoi
cari, anche se colpito mortalmente durante la guerra, un amico descritto nelle
ultime righe: “signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente
affamato”.
Una cosa che comincia
per elle
Uno delle più grandi paure
dell’uomo degli ultimi anni è stata l’AIDS; oggi è sempre una grave patologia,
ma grazie ai progressi della scienza e della medicina, comincia a far meno
paura, certamente provoca molto meno panico rispetto a quanto esordì sulla
scena mondiale, e non si comprendeva bene la causa, i meccanismi di insorgenza
e diffusione e soprattutto come affrontarla farmacologicamente. Diciamo che
l’AIDS, così come il cancro, rappresenta la paura con la maiuscola che in
passato era deputato ad altre infezioni oggi fortunatamente quasi debellate del
tutto come la peste o il vaiolo.
Ebbene, in questo racconto,
rendendo mirabilmente lo stato d’animo gradualmente
ingravescente di mistero, sorpresa, ansia ed angoscia che avviluppano il
protagonista come i tentacoli di una piovra, Buzzati ci parla proprio di questa
paura, la paura delle malattie, una paura tanto grande e tanto temuta, insita
ed ancestrale nell’uomo, una paura che rende i suoi simili disumani nei
confronti del povero, sfortunato reietto colpito dalla patologia.
Cristoforo Schroeder, un mercante
di legnami, contrae la lebbra a sua insaputa, mentre un lebbroso lo aiuta a
spingere una carrozza, rimasta impantanata in una notte temporalesca.
Ai primi sintomi, credendo sia un
banale malessere, egli avvisa il medico, sperando di trovare un aiuto, ma
quest'ultimo a sua volta avverte invece le autorità, nella fattispecie il
sindaco.
Medico e sindaco la mattina
seguente si recano nella locanda dove Schroeder soggiorna ed il sindaco,
mostrando una cattiveria assurda ed una fredda insensibilità, comunica
all'ignaro Schroeder di aver contratto la malattia, che il suo cavallo e la sua
carrozza sono stati bruciati ed inoltre gli ordina, sotto la minaccia di una
pistola, che deve lasciare immediatamente la città ("Fuori! fuori di qua!
Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane!
"), portando al collo una campanella che segnali alle altre persone il suo
arrivo, senza neanche poter indossare i suoi vestiti, in quanto verranno
anch'essi bruciati.
Un racconto breve e drammatico,
dove la crudeltà della patologia, la temutissima lebbra, per secoli un
autentico spauracchio, eguaglia la crudeltà dell’uomo; la misericordia,
l’umanità, lo spirito di solidarietà sembrano dimorare solo nel cuore del
povero lebbroso che si prodiga a tirare fuori la ruota di una carrozza dal fango.
La fine del mondo
E se un bel giorno un preciso
segnale fa capire che Dio ne ha abbastanza di noi, e con un semplice pugno
intende dar luogo a breve alla fine del mondo?
Come reagirebbe l’umanità? E chi
si salverebbe? E finalmente, gli uomini darebbero prova di sé, offrirebbero il
meglio di sé, se non altro per salvarsi l’anima? O la cattiveria, la crudeltà,
l’egoismo dell’uomo trionferebbero anche stavolta, come al solito?
Anche questo racconto rispecchia
il mondo di Buzzati, un mondo magico, misterioso, stupendo come una maestosa
montagna, ma che spesso la presenza dell’uomo in qualche modo deprezza.
E’ sempre l’individualità ad
emergere anche quando è la fine di tutto, quando Dio, rappresentato dallo
scrittore come un enorme pugno che si scaglia sul mondo, piomba sulla Terra per
giudicare gli uomini. In “La fine del mondo”, di fronte alla catastrofe
imminente, gli uomini cercano la salvezza: c’è chi prega, chi piange, chi fa
l’amore, e chi disperatamente si lancia alla ricerca di un prete per confessarsi
e salvarsi l’anima. Preti e membri del clero sembrano essersi volatilizzati; ma
infine una gran folla che corre disperata per la città scova e trattiene un
giovane sacerdote, pretendendo da lui confessione, comunione, conforto ma più
di tutto assoluzione completa, salvezza assoluta e garantita.
Il prete in quest’occasione
dimostra tutta la sua umanità, nel senso che si dimostra per quello che davvero
è: senza esitare, tradisce se stesso e le proprie scelte di vita. Dimentica il
dettato evangelico, pensa soltanto a se stesso. Trema pensando alla propria
fine e non più a quella folla che egli, in forza della propria missione,
dovrebbe sostenere negli ultimi istanti di vita del mondo. Anche lui come gli
altri cerca la salvezza nella confessione dei propri peccati.
L’uomo chiede «E io? E io?».
Tutti quei «maledetti» che gli rubano la possibilità di isolarsi, di pregare,
di confessarsi e di autoassolversi, in definitiva gli impediscono di salvarsi.
Essi non sono più le pecorelle
del suo gregge, non rappresentano più niente per lui; egli non ama più
l’umanità e l’umanità non lo ama semmai se ne serve.
«Nessuno … gli badava»..., scrive
Buzzati, a nessuno interessa niente dell’altro.
E non capiscono che è proprio
questo egoismo, questa grettezza, questa meschinità, questo modo di essere è
quello che Dio misericordioso non perdonerà mai.
Qualcosa era successo
Il racconto è essenzialmente la
storia, assai insolita, di un viaggio, un lungo viaggio in treno, senza soste e
senza interruzioni, dal profondo Sud fino
a Milano; fin qui nulla di particolare, il paesaggio scorre pigramente dal
finestrino davanti agli occhi del protagonista narratore.
Ad un passaggio al livello, la
vista di due persone in allarmata discussione, innesca la paranoia del
protagonista e da lui agli altri passeggeri il passo è breve, quasi come
un’infezione virale, per cui in un crescendo di tensione e di nevrastenia, il
viaggio tranquillo e soporifero diventa un angosciante viaggio verso l’ignoto,
verso una probabile catastrofe accaduta proprio nei luoghi dove il treno si sta
dirigendo. L’episodio avvenuto al passaggio a livello, semplicemente una donna,
che aspetta il passaggio del convoglio per attraversare, in discussione con un
uomo che, a giudizio del protagonista, è allarmato e spaurito, è un episodio
reale; ma l’interpretazione che ne viene data è filtrata dalle paure, dalle
nevrosi di uno che facilmente si impossessa degli altri.
La stupidità umana non ha limiti
ed è facilmente contagiosa, questo pare essere il significato del testo. Infatti,
da quel momento, ogni persona che si vede dal finestrino, in qualsiasi zona si
trovi il treno, dà a tutti l'impressione di essere in preda al panico per un
ignoto motivo; addirittura i treni che da nord vanno a sud appaiono stracolmi
di profughi. Si vede ciò che si vuole vedere e che dà corpo e conferma alle
proprie paure. Il terrore di non sapere cosa aspetta all'arrivo assale l’animo
del protagonista dilaniandolo, ed egli trasmette la sua angoscia irreale agli
altri occupanti del vagone, evidentemente tutti recettivi a tale ansia.
Un pezzo di giornale strappato ad
uno strillone amplifica le sue e loro paure: c'è scritto IONE, che lui
interpreta come rivoluzione, inondazione, esplosione... ma potrebbe anche
essere premiazione, esposizione, celebrazione. In realtà, egli non è una
persona equilibrata, proprio perché non è immune da pecche, vede ed immagina
sempre il peggio, possiamo dire che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto; per
cui infine all'arrivo nella Stazione Centrale di Milano il protagonista scende
dal treno terrorizzato e si inquieta nel trovare la stazione deserta (è notte
fonda) e il fischio di un treno viene interpretato come un grido che squarcia
la notte.
La storia è descritta dal punto
di vista del protagonista: ansia e insicurezza portano lo stesso protagonista
ad un crescendo di paure infondate. Proprio perché è il protagonista a
descrivere soggettivamente gli eventi, le sue paure potrebbero inizialmente
apparire come fondate agli occhi del lettore. Questo tipo di narrazione, con il
viaggio nella mente di un personaggio ansioso e suggestionabile, è un tema
ricorrente nelle storie di Buzzati.
Appuntamento con
Einstein
Buzzati dimostra apertamente in vari suoi scritti la sua avversione per la
guerra e simili, egli considera la guerra e le attività collaterali come le
fabbriche di armi come un vero e proprio abominio morale dell’uomo. E
naturalmente l’orrore più grande verso cui scaglia il suo sdegno è la bomba
atomica.
In questo racconto intitolato appunto
“Appuntamento con Einstein”, Buzzati immagina che il celebre scienziato, dopo lunghi
studi ed intense lunghe riflessioni, riesce a concepire con chiarezza il suo
famoso principio della relatività, elucubrando non solo le sue implicazioni
sullo spazio e sul tempo, ma già intuendo gli usi possibili ottenibili dando
luogo all’immensa liberazione di energia scindendo la materia.
Un giorno, uno strano personaggio si avvicina ad Einstein: egli
è l'Angelo della Morte, e senza mezzi termini gli preannuncia che è giunta la
sua ultima ora.
Lo scienziato all'inizio è incredulo, ma poi, convinto dagli
straordinari poteri dell'interlocutore, chiede una proroga, perché intende
completare la formulazione della sua teoria, prima di lasciare la vita.
Il demone gli concede così ancora un mese di tempo e poi,
scaduto il tempo concordato, un'altra dilazione di quattro settimane.
Alla fine, trascorso quest'ultimo lasso di tempo, Einstein,
presentatosi all'appuntamento, dopo che ha terminato i suoi studi sulla
relatività, è rimandato indietro. Egli è stato bellamente preso in giro,
ingannato. Infatti l'Angelo della Morte, non è mai stato interessato alla vita
dello studioso, ma lo ha incalzato affinché Einstein portasse a compimento con
rapidità le sue ricerche di fisica, utili per scopi belligeranti, e quindi responsabili
dei lutti, dei dolori, degli orrori…tutte belle cose di cui si nutre il Male, l'Inferno,
che sta dietro all’Angelo della Morte inviatogli per ingannarlo.
All’idrogeno
Sulla falsariga di “Appuntamento con Einstein” anche questa racconto ha
sullo sfondo, come vero protagonista, la bomba atomica. Con tutto quanto esso
sottendente: strumento di morte creato dall’uomo, certamente, ma anche come
simbolo della stupidità e della grettezza umana.
Il menefreghismo, l’egoismo, l’aridità d’animo, il desiderio di trovare
una soluzione che escluda sé stessi da ogni coinvolgimento è al centro del
racconto “All’idrogeno” nel quale lo spaccato di umanità preso in considerazione da Buzzati è un
condominio. Ciascuno dei condomini, campioni dell’umanità, bada esclusivamente
al proprio orticello, cerca in qualunque modo di non affrontare questioni che
turbino il proprio quieto vivere.
All’inizio di questo racconto il protagonista riceve una telefonata nel
cuore della notte e egli, improvvisamente, si rende conto, così come gli altri
residenti del palazzo dove abita, che qualcosa di insolito sta per accadere.
Infatti l’orrore, l’oggetto perturbante del perbenismo ipocrita dei benpensanti
fa il suo ingresso nel condominio sottoforma di una bomba all’idrogeno che
viene portata nell’atrio del palazzo.
Gli inquilini del palazzo escono dalle loro case e sono terrorizzati e
si agitano perché tra miliardi
d’individui nel mondo quella sera la bomba atomica è stata portata a
casa loro, provare a chiedere
di che cosa si tratti è quasi un affronto e tutti parlano sussurrando.
“Gli abitanti del palazzo sembrano impazziti, tormentati oltre misura
dall’idea che loro avevano
altri piani, che la bomba li travolgerà e loro non potranno fare ciò
che avevano programmato; sono
stizziti al pensiero che la bomba sia toccata proprio al loro
condominio e non ad altri” così magistralmente li descrive Buzzati
La scena, però, viene improvvisamente rasserenata da una notizia, tra i
condomini si diffonde la
voce che la bomba pare indirizzata a uno solo degli abitanti del
condominio, proprio il protagonista diretto del racconto. Tutti sono improvvisamente
travolti da una selvaggia felicità e sembrano non rendersi conto che nel caso
in cui la bomba dovesse esplodere comunque la cosa li coinvolgerebbe.
Il destinatario del pacco infernale si ritrae verso l’uscio della sua
porta e torna a chiudersi nel suo
appartamento, ciò che lo aveva accomunato agli altri condomini,
improvvisamente diventa un suo
problema personale. Lo sgomento che aveva sconvolto tutti ritorna ad
essere il problema esclusivo di uno solo e perciò di nessun interesse per gli
altri, gli altri possono ritornare a
vivere tranquilli, perché, almeno per quella sera, il mondo intero può anche
esplodere, non è una cosa che li riguarda.
Non aspettavano altro
Nei suoi racconti Buzzati si
sofferma spesso a sottolineare la grettezza, l’orizzonte limitato degli esseri
umani, la loro meschinità. E naturalmente, non può non esaminare una delle
rappresentazioni più drammatiche dell’aridità umana, la violenza. La violenza
gratuita, pretestuosa, selvaggia è la vera protagonista di questo racconto.
A causa di un imprevisto, Anna e
Antonio cercano un posto per la notte nel piccolo paese lì vicino. Gli abitanti
sembrano guardare con sospetto la coppia che non riesce a trovare disponibilità
negli alberghi del paese. La stanchezza inizia a farsi sentire e i due si
avviano verso l’albergo diurno dove almeno rinfrescarsi un poco. Trovano però
code interminabili di gente e anche quando arriva il loro turno, scoppia un
diverbio tra Anna e un’altra donna.
Dopo ripetuti tentativi da parte
di Antonio di recuperare la situazione i due devono abbandonare l’idea di poter
usare quei bagni e scorgono in una piazzetta poco distante una fontana piena di
bambini e donne e uomini tutto intorno.
Anna non resiste più ed entra
nella fontana per rinfrescarsi ma un mormorio inizia a sollevarsi dalla folla
tutt’intorno affinchè torni indietro, perchè quella fontana è riservata ai
bambini.
La situazione degenera nel giro di
breve tempo e niente può ormai trattenere quella gente dal buttare fuori “quel
carico di cattiveria” covato a lungo in fondo ai loro animi.
Anna viene presa e picchiata e
anche Antonio ha la peggio.
Sembra che tutti siano impazziti
e non esista alcuna forma di pietà, comprensione o di semplice raziocinio. La
gente grida incespicando nelle parole, ora diverse da prima, incomprensibili,
gutturali, selvagge, con un suono rozzo e informe. L’isteria collettiva si è
scatenata, in un delirio sfrenato e pazzesco Anna che tenta la fuga viene
inseguita e lasciata cadere nella gabbia del castello. Anche Antonio giunto in
soccorso di Anna viene scaraventato nella gabbia e la caduta gli sarà fatale.
La folla ormai sazia inizia ad allontanarsi mentre Anna sente il richiamo di un
grillo e tende la sua piccola mano tremante ed è come se il grillo con il suo
suono si facesse portavoce del suo grido di aiuto. La natura ha pietà della
follia dell’uomo.
Il disco si posò
Buzzati ha trattato spesso il
tema della religione nei suoi libri; e spesso, pur non travalicando mai i
limiti, senza mai mostrarsi irriverente o irrispettoso, egli utilizza la
religione come un mezzo per sottolineare la pochezza dell’uomo.
Questo racconto ha qualcosa di
fantascientifico, si parla di marziani e di dischi volanti.
Ma e solo apparenza; infatti, ne
“Il disco si posò”, la religione viene
sviscerata nelle componenti più ambigue.
Un disco volante atterra sul
tetto della canonica, e dopo l’iniziale sconcerto per lo strano aspetto degli
alieni e l’istintiva diffidenza per il “diverso”, si instaura un dialogo e si interroga
il sacerdote del luogo, sugli usi e costumi degli abitanti del pianeta Terra, e
soprattutto sul significato di quella strana “antenna”, la croce, che gli
alieni hanno individuato un po’ dappertutto, ma senza comprenderne il
significato, malgrado la loro scienza.
Il parroco allora con ispirazione
e susseguo, quasi volesse evangelizzare quegli astronauti da un’altra galassia,
spiega loro il significato della croce,
di come Dio creatore onnipotente di tutto è sceso dal cielo per salvare gli
uomini, che alla fine…lo hanno ucciso.
I marziani ascoltano attentamente
ed in silenzio, per poi andarsene via per sempre visibilmente delusi, senza
sprecare commenti su creature che si comportano in un modo così assurdo,
arrivando ad uccidere il loro creatore. Non riportano quindi una buona opinione
sulla razza umana.